Nel corso dell’ultimo anno si è verificato un
acutizzarsi dello scontro sociale tra governo e sindacati confederali. Il
centro della disputa è stato l’ormai famoso articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori, che obbliga al reintegro nel posto di lavoro del dipendente
licenziato senza giusta causa in imprese con oltre 15 dipendenti.
L’iniziale proposta del governo Berlusconi consisteva
in tre modifiche dell’articolo che avrebbero consentito la libertà di
licenziamento in tre casi:
1. dipendenti in nero che le aziende provvedessero a
far emergere,
2. dipendenti con contratto a tempo determinato che ne
ottenessero uno a tempo indeterminato,
3. nuovi assunti nelle aziende che decidessero di
superare la soglia di 15 dipendenti.
Il cosiddetto “Patto per l’Italia”, firmato il 5
luglio scorso da governo e parti sociali con l’eccezione della CGIL, ha
notevolmente ridimensionato l’iniziale intento innovatore. È infatti
previsto solo il terzo dei casi sopra detti, in più anch’esso sarà in
vigore in via sperimentale per soli tre anni al termine dei quali si
deciderà se prorogare la deroga o tornare all’articolo 18 mediante avviso
comune tra le parti sociali.
Il leader della CGIL Cofferati ha subito denunciato con
forza il patto, promettendo la mobilitazione del sindacato mediante un nuovo
sciopero generale e la raccolta di firme per un referendum abrogativo del
patto stesso. Contemporaneamente ha chiesto il totale appoggio dell’intero
centrosinistra alla propria battaglia, che ha ottenuto, però, solo
parzialmente (da Rifondazione, Verdi e sinistra DS, il cosiddetto “correntone”).
Di conseguenza, si è aperto un nuovo fronte di confronto-scontro, oltre a
quello più consueto, tra CGIL e governo di centrodestra: un fronte interno
al centrosinistra tra chi è disposto a far propria senza riserve la linea
della CGIL e chi, invece, mostra perplessità se non contrarietà. C’è
chi trova questa divisione come un nuovo esempio di autolesionismo della
sinistra italiana. Si tratta invece di una disputa politicamente
fondamentale in quanto la sua soluzione comporta la scelta tra due linee
strategiche tra le quali è impossibile trovare un compromesso costruttivo.
Da un lato c’è la linea di chi vuole conservare le garanzie che la
legislazione esistente assicura a determinate categorie di lavoratori
(attenzione: non a tutti), che coincidono con quelle più sindacalizzate,
indipendentemente dal mutamento del sistema produttivo e dal prezzo che esse
comportano in termini di maggiore disoccupazione. Dall’altra c’è la
linea di chi ritiene che la coalizione di centrosinistra non debba limitarsi
a rappresentare esclusivamente gli interessi degli iscritti a un sindacato,
ma debba guardare anche alle fasce di popolazione non garantite da nessuna
organizzazione di categoria: in particolare i disoccupati e i giovani (due
categorie che spesso coincidono essendo la disoccupazione giovanile italiana
la più alta dell’Europa occidentale). Ora, è praticamente provato da
quasi tutta la teoria economica e sostenuto da tutti gli organismi
internazionali (dall’UE al Fondo Monetario all’OCSE) che una maggiore
flessibilità del mercato del lavoro, cioè un rilassamento di alcuni
(sebbene non tutti) vincoli e costi che ostacolano la libertà di assumere e
licenziare da parte delle imprese o disincentivano la mobilità e la ricerca
di un posto di lavoro da parte dei disoccupati, consentirebbe un calo della
disoccupazione nei paesi dell’area-Euro e in particolare in Italia dove
tali rigidità sono più alte. Viene, dunque, da chiedersi, in particolare
da parte di chi si professa di sinistra, se non sia giusto rilassare
determinate garanzie che avvantaggiano solo alcuni (come l’articolo 18) se
il loro prezzo, nel sistema economico attuale, è quello di escludere dal
mercato del lavoro molti altri. Se la risposta è affermativa, si conclude
che Cofferati stia facendo esclusivamente gli interessi degli iscritti al
suo sindacato, cosa che rientra perfettamente nel suo mestiere, ma che
difficilmente gli dà il diritto di pretendere da parte dell’intera
coalizione dell’Ulivo (composta da partiti e non da sindacati) di far
proprie senza discussioni tute le sue battaglie, né giustifica il fatto che
il leader CGIL venga dipinto ormai da gran parte della stampa orientata a
sinistra come il vero e unico oppositore del governo Berlusconi; cosa che,
anche se fosse vera, dovrebbe preoccupare e non galvanizzare, visto che in
democrazia il rispetto dei ruoli è fondamentale e non spetta ai
sindacalisti (che non hanno una legittimazione democratica) il compito di
guidare l’opposizione politica a un governo. Viene, infine, da chiedersi
un’ultima cosa: se sia giusto che un’organizzazione sindacale che, come
la CGIL, conta cinque milioni di iscritti (in un paese che ha cinquantasette
milioni di abitanti), di cui la maggior parte pensionati, quindi fuori dal
mercato del lavoro, abbia o pretenda, di fatto, un diritto di veto su ogni
riforma del diritto del lavoro, anche di fronte a un governo
democraticamente eletto e a una maggioranza parlamentare democraticamente
eletta che siano di diverso avviso. Concertazione vuol forse dire
codecisione?