Pagina Precedente L'Unione Europea: un lungo e difficile
percorso verso l'integrazione politica
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Nel momento in cui nacque, con la firma del Trattato di Roma nel 1957, la Comunità Economica Europea aveva a prima vista la fisionomia di un'entità di carattere puramente economico e commerciale.

In realtà già allora la sua più profonda identità era, invece, politica: un patto franco-tedesco volto ad evitare una nuova guerra tra le due maggiori potenze europee. Non è un caso che le due principali sfere di competenza comunitarie fossero, allora, l'unione doganale, cioè la libera circolazione dei prodotti industriali all'interno dei suoi confini, e la politica agricola comunitaria che aboliva in maniera analoga le frontiere interne per il libero scambio di prodotti agricoli ma a ciò univa un sistema fortemente protezionista contro la concorrenza esterna e sussidi pubblici molto consistenti agli agricoltori. La Francia, sostanzialmente, accettava di essere "invasa" dai più competitivi prodotti dell'industria tedesca in cambio di un forte sostegno al proprio consistente settore agricolo, a spese degli altri partner comunitari.

Molto tempo dovette passare da allora perché il processo d'integrazione facesse sostanziali passi in avanti e la sua natura politica fosse resa esplicita e si approfondisse. Tappe importanti furono la prima elezione a suffragio universale del Parlamento Europeo nel 1979 e il compimento del Mercato Comune delle merci nel 1992. Gli anni '90 sono certo stati il decennio dove l'integrazione si è approfondita con più vigore in modo sia concreto che simbolico. Con la stesura del Trattato di Maastricht del 1992 la CEE diventa Unione Europea, l'aggettivo "economica" diventa riduttivo visto l'ulteriore trasferimento di competenze dalla sfera nazionale a quella comunitaria; ma soprattutto si stabilisce la creazione di un'unione monetaria. Dal 2002, infatti, un'unica moneta ha sostituito quella di dodici degli allora quindici stati membri mentre la politica monetaria (che in sostanza significa la fissazione di un determinato tasso d'interesse che poi guida quella di tutti gli altri tassi) è decisa non più dalle banche centrali nazionali ma da un'unica Banca Centrale Europea. Qui il salto di qualità politico è già molto forte visto che la politica monetaria è uno degli strumenti più potenti nelle mani di uno stato sovrano, avendo un forte impatto sullo stato di salute della sua economia. Delegarlo ad un'entità sovra-nazionale significa rischiare che esso sia gestito in modo non necessariamente corrispondente alla fase ciclica in cui si trova l'economia nazionale. Il valore critico di questa cessione di sovranità fu dimostrato dalla fatica che dovette fare Kohl per convincere una scettica Germania ad abbandonare un Marco forte e ad esautorare un'istituzione come la Bundesbank che aveva assicurato bassa inflazione per tutto il dopo-guerra; ma anche dalla decisione della Gran Bretagna, l'Euro-scettica per eccellenza, di chiamarsi fuori e tenersi la Sterlina, scelta tuttora confermata nonostante vaghi progetti di referendum popolari per sciogliere definitivamente la questione. Kohl dal canto suo, per avere il consenso dell'opinione pubblica tedesca, dovette imporre una banca centrale europea fatta su immagine della Bundesbank, cioè fermamente ancorata a una politica anti-inflazionistica e totalmente indipendente dai governi, così da non dover cedere alle eventuali pressioni per una politica monetaria più rivolta a stimolare la crescita economica o a salvare dalla bancarotta paesi con un insostenibile debito pubblico (inutile dire a chi pensavano!).

Da quel momento non si è più avuto un rafforzamento così chiaro e tangibile dell'avventura europea. C'è stato, sì, l'allargamento ad otto paesi dell'ex blocco comunista, il Primo Maggio del 2004 (insieme a Cipro e Malta), dopo una lunga gestazione, ma allargare i confini dell'Unione non significa approfondirne i poteri e le competenze. Anzi, se c'è un rapporto tra le due evoluzioni forse è negativo, nel senso che l'allargamento, un movimento "orizzontale", potrebbe rallentare l'approfondimento, che è invece "verticale", se non altro perché le differenze politiche ed economiche tra gli stati membri aumentano, restringendo gli spazi entro i quali scelte uguali per tutti sono praticabili.

Da più parti è stata formulata l'idea che una volta compiuta l'unione monetaria, l'unione politica sia il naturale passo successivo. Occorre però che sia chiaro cosa quest'espressione implica: un vero e proprio governo europeo espressione di una maggioranza politica nel parlamento europeo, quindi un'entità analoga a un governo nazionale e molto diversa dall'attuale Commissione Europea che è composta da rappresentanti dei singoli Stati Membri, scelti quindi dai rispettivi governi nazionali.

Un governo, inoltre, ha un proprio consistente bilancio ed ha potere d'imposizione fiscale, mentre l'attuale bilancio comunitario viaggia attorno all'1% del PIL dell'UE (cioè le briciole) e non esiste una tassa europea (per fortuna, dirà il lettore, anche se in realtà una Europa più forte vorrebbe dire meno compiti per lo Stato nazionale quindi non è affatto detto che la pressione fiscale complessiva aumenterebbe). Insomma una prospettiva federalista, da Stati Uniti d'Europa. Chi lavora per un'istituzione comunitaria, per quanto inizialmente idealista, impiega solo qualche settimana per capire che uno sviluppo del genere è impensabile, se non in un futuro molto lontano. La Costituzione Europea, adottata il 18 giugno del 2004, conferma questa impressione: essa infatti si limita a confermare l'attuale assetto e divisione di poteri tra le istituzioni dell'Unione, anche se aumenta il numero di materie su cui il Consiglio decide a maggioranza qualificata e non all'unanimità (limitando il diritto di veto del singolo paese, che in passato ha molto frenato il processo di integrazione nella sfera sociale, fiscale, della politica estera comune) e stabilisce che il Consiglio Europeo (l'organo composto dai capi di stato e di governo) abbia un presidente con un mandato di due anni e mezzo. Il fatto, poi, che un testo non certo rivoluzionario come questo, che lo stesso Prodi, da presidente della Commissione, aveva definito poco ambizioso, rischi addirittura di non essere ratificato da alcuni paesi che hanno scelto di sottoporlo a referendum (la Gran Bretagna in primis ma anche la Francia) rende ancora più disincantati sul futuro dell'Europa.

Se, però, la costituzione formale non lascia intravedere la prospettiva dell'unione politica, quella materiale dà forse segnali un po' diversi. La vicenda della mancata conferma di Buttiglione alla carica di commissario, innescata dal voto contrario di una commissione del Parlamento Europeo, è l'evidente segnale che quest'organo intende, d'ora in avanti, far valere il proprio potere di censura nella fase di formazione della Commissione, non accettando di mettere solo un timbro formale sulle decisioni degli stati. Un parlamento che reclama più forza toglie spazio agli stati nazionali ed è un primo passo verso una dimensione politica più incisiva dell'Europa.

A livello più basso, qualcuno ha intravisto la nascita di un vero e proprio popolo europeo nelle contemporanee manifestazioni contro la guerra in Iraq che si sono tenute in varie capitali del "vecchio" continente.

Negli ultimi mesi ha tenuto banco la vicenda dell'allargamento alla Turchia. Molto tempo dopo la sua prima richiesta di partecipazione all'UE, lo scorso anno la Commissione ha dato il via libera tecnico e il Consiglio Europeo di dicembre quello politico all'avvio dei negoziati di adesione fissato per ottobre 2005. E' un passo che suscita perplessità ben maggiori di quelle dell'allargamento ad Est: si parla di un paese di 70 milioni di abitanti, che sarà in prospettiva il più popoloso dell'Unione (quindi col maggior numero di rappresentanti in Parlamento Europeo e il più alto numero di voti nel Consiglio), superando presto la Germania vista la sua alta crescita demografica. Sarà il primo paese islamico dell'UE, in termini economici molto più arretrato degli stessi nuovi membri entrati nel 2004, il che significa che la parte più dura del negoziato sarà determinare l'entità dei fondi strutturali e dei sussidi agricoli cui avrà diritto (e a spese di chi).

Insomma, in questa fase storica, il pendolo è più rivolto all'allargamento che all'approfondimento dell'integrazione, al contrario di una decina d'anni fa. Certo il negoziato con la Turchia si annuncia lungo e resta la possibilità, già utilizzata nel caso dell'unione monetaria, delle cooperazioni rafforzate, cioè di un nocciolo duro di paesi che decide di andare più avanti degli altri nel processo di integrazione, che potrebbe essere la soluzione per conciliare le due dimensioni.

Matteo Governatori

Funzionario,

Commissione Europea

Direzione Generale
per l'Occupazione,
gli Affari Sociali e
le Pari Opportunità