Pagina Precedente Una suora contro la pena capitale Pagina Successiva

La prima esecuzione alla quale ha assistito, nel 1984, le ha cambiato la vita. Da allora suor Helen Prejean, statunitense, è diventata una convinta abolizionista. In questa intervista racconta la sua esperienza e rivela i risvolti razzisti delle condanne.

“Ho accompagnato cinque persone alla morte nelle camere di esecuzione delle prigioni degli Stati Uniti. Tre sono morti sulla sedia elettrica , due con un’iniezione letale. Quello che ho visto mia ha cambiato la vita. Prima la questione non mi interessava. Ero di fatto complice di quegli assassini, come ogni americano a cui va bene il suo Governo. Poi sono diventata un’abolizionista determinata”. Suor Helen Prejean parla piano, misura le parole, a volte sorride. Anche lei era presente lo scorso settembre alla preghiera per la pace organizzata ad Aquisgrana dalla comunità di Sant’Egidio, con cui ella collabora da anni per chiedere una moratoria mondiale alla pena di morte. Nel dicembre di due anni fa, la comunità fondata da Andrea Riccardi aveva presentato all’Onu tre milioni e mezzo di firme contro la pena di morte.

Perché uno stato non dovrebbe prevedere la morte come pena?

“Ci sono dei diritti inalienabili, che non possono essere separati dalla persona. Uno è il diritto alla vita, che non va elargito dai Governi solo a chi ha una buona condotta. Ecco perché l’uccisione da parte di un Governo non dovrebbe mai essere tollerata. E’ stata la riflessione attorno ai diritti dell’uomo che ha spinto la maggior parte dei Paesi del mondo a porre fine alle esecuzioni”.

Ricorda la prima esecuzione?

“Era il 5 aprile 1984. Lo Stato della Lousiana aveva eseguito la condanna di Patrick Sonnier mediante sedia elettrica. Ne uscii traumatizzata. Nel viaggio di ritorno feci fermare l’auto: avevo bisogno di vomitare. Non potevo quasi credere che il Governo del mio Stato uccidesse un essere umano secondo un protocollo di morte così preciso e calcolato. E’ iniziata lì la mia missione. Dovevo portare tante persone dalla vendetta alla compassione. Io mi preoccupo di mostrare i due aspetti della questione: la sofferenza delle famiglie delle vittime e la loro ricerca di consolazione da una parte e quella dei condannati e delle loro famiglie dall’altra”.

C’è riuscita in questi anni?

“In parte. Non è facile, perché le famiglie delle vittime a volte mi evitano. Non capiscono come io possa mostrare rispetto o compassione per chi ha assassinato i loro cari. Per lenire il loro dolore confidano nella giustizia punitiva dell’occhio per occhio che il Governo offre loro. Gli Stati Uniti sono l’unico Paese al mondo che giustifica la pena di morte come sostegno alle famiglie delle vittime. Ritengono che aiuti a consolare le famiglie”.

Serve la pena di morte?

“La maggior parte dei capi delle polizie oggi ritiene che non sia un deterrente contro il crimine. Io di solito spiego che solo una percentuale davvero bassa di assassini è condannata a morte: meno del 2 per cento degli autori dei circa 15 mila omicidi di un anno. E una percentuale ancora più bassa delle condanne viene eseguita. Dopo 20 anni di esperienza posso dire che, nonostante la cosiddetta neutralità delle leggi e le linee guida della Corte Suprema degli Stati Uniti per assicurare che la pena capitale sia imposta allo stesso modo, essa scatta per le persone povere e in particolare per coloro che uccidono i bianchi”.

Dietro c’è una mentalità razzista che ritorna?

“Riguardo alla pena di morte il razzismo non è mai stato superato. Quando negli Stati Uniti un bianco uccide uno di colore raramente i giudici la prendono in considerazione. Fa parte della nostra storia razzista: la vita di un bianco ha un valore molto più elevato. L’eredità della schiavitù continua a permeare il sistema giudiziario. Basta osservare i luoghi dove si concentrano le esecuzioni. Gli Stati che hanno praticato la schiavitù, il linciaggio, la discriminazione estrema sono gli stessi che effettuano l’80 per cento delle esecuzioni capitali. Quelli del nord-est dove la lotta contro le discriminazioni è stata maggiore contano solo l’1 per cento. Allora domando: come può un Paese, che dichiara di riconoscere alla sua popolazione la garanzia costituzionale della giustizia imparziale in conformità alla legge, tollerare un sistema così discriminatorio di applicazione della pena di morte?”.

Quante sono le persone condannate a morte dalla giustizia negli Usa?

“Da quando la pena di morte è stata reinserita nella giustizia gli Stati Uniti hanno mandato a morte 850 persone, specialmente negli Stati del Sud. Attualmente ci sono 3.500 persone che attendono l’esecuzione nei bracci della morte”.

Cosa farà ora suor Helen?

“Sto scrivendo un altro libro. Si intitolerà La macchina della morte. Racconto le storie di due innocenti che ho accompagnato all’esecuzione: Dobie Williams in Lousiana e Joseph O’Dell in Virginia. I tribunali americani le considerano morti legalmente approvate. Quando leggerete queste storie e conoscerete le ingiustizie fatte a questi uomini durante la detenzione mi auguro che vi scandalizzerete. Ma spero che lo faccia soprattutto il popolo americano, per aumentare la discussione pubblica sulla pena di morte. Faccio un discorso inflessibile, duro, a volte crudo. Ma ho la speranza che questa pratica cessi definitivamente nel mondo entro questo secolo”.

di Alberto Bobbio

da “vita pastorale” n. 12/2003