
Nei primi sei mesi del pontificato di Benedetto XVI, chi fa opinione si è
dovuto piegare alla logica comunicativa del Papa, se voleva continuare a
informare sulla Chiesa. Benedetto XVI ha scelto di comunicare con un
linguaggio sapido, segnato in profondità dalla Parola di Dio e da quello che
l’apostolo chiama il "pensiero di Cristo". Non ha cercato di far notizia, ma
si è concentrato sul Vangelo come buona notizia. Ha voluto andare oltre le
domande, spesso banali, che l’attualità pone alla Chiesa, per parlare al
cuore delle donne e degli uomini.
Bisogna allora
ascoltare attentamente le sue parole. Il Papa smentisce due pregiudizi,
secondo i quali avrebbe parlato da "professore" e da "inquisitore". Si sente
la sua grande cultura, non solo teologica; eppure il suo linguaggio è
semplice, biblico, insomma, mira al cuore. Ritorna costante un motivo:
essere cristiani è una gioia.
Il "successore di
Pietro" ha scelto di confermare i suoi fratelli con la parola. Ogni volta
che parla, si sa immediatamente quello che pensa, sente e spera. In questo
modo si è creata una comunione attorno a lui, fatta di cuori e menti,
convinti che il futuro viene da cuori abitati dalla fede.
La Giornata
mondiale della gioventù di Colonia è stata l’evento più grande di questi
mesi. Ma anche i fatti minori, quelli che sembrano di routine, sono stati
segnati dal culto della parola, attraversati dall’invito a credere, a
pregare con la liturgia, ad amare la Scrittura.
Il Papa, in
questi sei mesi, si è sempre presentato come «un semplice e umile lavoratore
della vigna del Signore» (lo aveva detto dopo l’elezione). Con un istinto
profondo, non ha voluto attrarre l’attenzione su di sé (nonostante che
sappiamo molto su di lui attraverso i suoi libri intervista), ma sul
messaggio di cui è portatore.
L’umiltà non è
una forma esteriore, in quest’uomo sapiente, che avrebbe desiderato
ritirarsi dal suo incarico curiale e che ha accettato, a 78 anni, un
incarico gravoso con spirito di obbedienza e con serenità. Quella
dell’umiltà è una lezione non da poco in questo nostro mondo di
protagonisti.
Chi ama
classificare i pontificati comincia a definire quello di Benedetto XVI come
un papato "religioso". Chi potrebbe negarlo? Eppure papa Ratzinger ha chiara
la difficile congiuntura del nostro mondo, con il terrorismo, con la
crescita dell’Asia (così poco cristiana), con la poca rilevanza dell’Europa,
con un clima culturale secolarizzato, con i conflitti religiosi e culturali,
con l’apparire di un cristianesimo "altro" e neoprotestante rispetto a
quello della tradizione, con grandi povertà…
Non sembra che il
Papa creda soprattutto a un piano centralizzato di riforma per rendere più
efficace la Chiesa. Ha detto nell’aprile 2005: «Ciò di cui abbiamo
soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che,
attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo
mondo». Sono quelli «che tengono lo sguardo diritto verso Dio»: parlano ai
cuori e alle menti degli altri.
Questo
pontificato non mira a far occupare alla Chiesa le prime pagine dei giornali
con qualche gesto, ma ad animare la missione dei cristiani nel mondo. Perché
questo mondo va cambiato. Il Papa lo ha detto a Colonia parlando ai giovani:
«Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento
decisivo del mondo».
Per questo
cambiamento decisivo, i cristiani hanno una strada, che li porta a vivere
personalmente quello che comunicano e sperano.
È la strada,
quella della missione, che il Papa sta indicando in questi mesi a chi lo
ascolta. È una via per i cristiani che stanno nel mondo, ma in modo
evangelico, perché abitati dalla fede.
Da Famiglia Cristiana n. 42 del
16/10/2005