Pagina Precedente BENEDETTO XVI, I primi mesi di Pontificato nel primato dei Vangelo Pagina Successiva

  di Andrea Riccardi
Ordinario di Storia contemporanea alla Terza Università di Roma
e fondatore della Comunità di Sant'Egidio

Nei primi sei mesi del pontificato di Benedetto XVI, chi fa opinione si è dovuto piegare alla logica comunicativa del Papa, se voleva continuare a informare sulla Chiesa. Benedetto XVI ha scelto di comunicare con un linguaggio sapido, segnato in profondità dalla Parola di Dio e da quello che l’apostolo chiama il "pensiero di Cristo". Non ha cercato di far notizia, ma si è concentrato sul Vangelo come buona notizia. Ha voluto andare oltre le domande, spesso banali, che l’attualità pone alla Chiesa, per parlare al cuore delle donne e degli uomini.

Bisogna allora ascoltare attentamente le sue parole. Il Papa smentisce due pregiudizi, secondo i quali avrebbe parlato da "professore" e da "inquisitore". Si sente la sua grande cultura, non solo teologica; eppure il suo linguaggio è semplice, biblico, insomma, mira al cuore. Ritorna costante un motivo: essere cristiani è una gioia.

Il "successore di Pietro" ha scelto di confermare i suoi fratelli con la parola. Ogni volta che parla, si sa immediatamente quello che pensa, sente e spera. In questo modo si è creata una comunione attorno a lui, fatta di cuori e menti, convinti che il futuro viene da cuori abitati dalla fede.

La Giornata mondiale della gioventù di Colonia è stata l’evento più grande di questi mesi. Ma anche i fatti minori, quelli che sembrano di routine, sono stati segnati dal culto della parola, attraversati dall’invito a credere, a pregare con la liturgia, ad amare la Scrittura.

Il Papa, in questi sei mesi, si è sempre presentato come «un semplice e umile lavoratore della vigna del Signore» (lo aveva detto dopo l’elezione). Con un istinto profondo, non ha voluto attrarre l’attenzione su di sé (nonostante che sappiamo molto su di lui attraverso i suoi libri intervista), ma sul messaggio di cui è portatore.

L’umiltà non è una forma esteriore, in quest’uomo sapiente, che avrebbe desiderato ritirarsi dal suo incarico curiale e che ha accettato, a 78 anni, un incarico gravoso con spirito di obbedienza e con serenità. Quella dell’umiltà è una lezione non da poco in questo nostro mondo di protagonisti.

Chi ama classificare i pontificati comincia a definire quello di Benedetto XVI come un papato "religioso". Chi potrebbe negarlo? Eppure papa Ratzinger ha chiara la difficile congiuntura del nostro mondo, con il terrorismo, con la crescita dell’Asia (così poco cristiana), con la poca rilevanza dell’Europa, con un clima culturale secolarizzato, con i conflitti religiosi e culturali, con l’apparire di un cristianesimo "altro" e neoprotestante rispetto a quello della tradizione, con grandi povertà…

Non sembra che il Papa creda soprattutto a un piano centralizzato di riforma per rendere più efficace la Chiesa. Ha detto nell’aprile 2005: «Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo». Sono quelli «che tengono lo sguardo diritto verso Dio»: parlano ai cuori e alle menti degli altri.

Questo pontificato non mira a far occupare alla Chiesa le prime pagine dei giornali con qualche gesto, ma ad animare la missione dei cristiani nel mondo. Perché questo mondo va cambiato. Il Papa lo ha detto a Colonia parlando ai giovani: «Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo».

Per questo cambiamento decisivo, i cristiani hanno una strada, che li porta a vivere personalmente quello che comunicano e sperano.

È la strada, quella della missione, che il Papa sta indicando in questi mesi a chi lo ascolta. È una via per i cristiani che stanno nel mondo, ma in modo evangelico, perché abitati dalla fede.

Da Famiglia Cristiana n. 42 del 16/10/2005