Pagina Precedente Viaggio solidale in Brasile Pagina Successiva

Quest'estate, con altri quattro ragazzi di una associazione di Ancona, ho trascorso un mese in Brasile, in una grande favela a 40 km da Rio de Janeiro.

Durante tutto l'inverno siamo stati preparati alla partenza e i ragazzi che avevano già fatto questa esperienza ci hanno raccontato tutto e ci hanno spiegato tante volte come sarebbe stato e cosa avremmo trovato là.Sapevamo che ci aspettava un altro mondo, ma solo trovandovisi si capisce veramente.

Al primo impatto, che è molto forte, si tende a paragonare tutto con quello che si è lasciati in Italia, e saltano agli occhi evidentissime tutte le cose che mancano. Abbiamo bene in mente l'immagine dei nostri paesi, lasciati da sole 12 ore d'aereo, il nostro stile di vita, e ci portiamo stretti con noi il nostro modo di pensare. Allora troviamo difficile chiamarle case, le loro. Hanno il perimetro di un materasso matrimoniale, steso in terra, sono in mattoni, in legno o, per i meno fortunati, in fango. Non hanno porte né vetri alle finestre, né il bagno,o la cucina. Lo spazio verde intorno ad ogni casa funge da cortile per giocare, da bagno e da discarica all'occorrenza.Le fogne sono a cielo aperto, e si gettano in un unico grande fiume di sporco in cui i bambini giocano.

E' anche troppo facile notare le differenze col nostro ambiente, la nostra pulizia e il nostro benessere economico. Entrando nelle loro case, le prime volte, ci si sente in colpa, ci si sente guardati come ragazzi più fortunati venuti da un paese ricco per sentirsi buoni per un mese delle nostre vacanze estive. Ma non è assolutamente questo che vogliono comunicarci con il loro sguardo. Siamo accolti con un affetto e una spontaneità mai provate prima. Stando lì giorno per giorno impariamo a conoscere veramente il posto, viviamo con i loro ritmi, entriamo nel loro modo di pensare e allora riusciamo a guardare un po’ più a fondo. Cominciamo a notare particolari molto meno evidenti che ci mostrano cosa c'è là che da noi manca.Si capisce che i bambini sono felici, nonostante la povertà e la sporcizia. Sono scalzi, e in condizioni igieniche da noi impensabili, ma basta loro un pallone per divertirsi. Si conoscono persone generose davvero, che hanno poco più di niente e te lo darebbero.

In un mese si stringono rapporti di una profondità e sincerità da noi impensabile nello stesso arco di tempo, perché non castrati dalla diffidenza, dai pregiudizi. C' è una fede molto più naturale e spontanea, e la Messa là è una festa. Si canta con gioia e trasporto e al momento della pace ci si stringe, ci si abbraccia, e ci si ritrova con un bambino per gamba e uno attaccato al collo; non come il nostro darci la pace con una fredda stretta di mano che è più un allontanare che un dimostrare veramente affetto.

Al momento di ritornare la voglia di rivedere la propria famiglia e i propri amici si contrappone al dispiacere di lasciare un ambiente che in un mese ci ha dato tanto, e persone a cui ci si è legati davvero.

Incredibilmente il ritorno a casa è di un impatto ancora più forte del primo giorno là. E' difficile, una volta che si è compreso che si può vivere in un modo più semplice ed essere più sereni, dover ricomplicare tutto, è un far violenza al proprio cervello, e ai propri sentimenti. Si torna al proprio benessere economico e alla comodità delle proprie case, ma guardandole non si riesce più a non vedere tutto quello che manca.