Le operazioni
inventariali volute dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e miranti
alla conoscenza e alla sempre più difficile tutela del patrimonio
storico-artistico della Chiesa mi hanno visto recentemente impegnato nella
parrocchiale di Santa Maria Assunta a Mondavio. Eretta, come oggi la
vediamo, nel 1563 dal pievano Pietro Antonio Genga di Urbino – tanto è
detto nell’iscrizione della facciata -, e ristrutturata nel corso del
Settecento, la collegiata mondaviese la conosco da quasi quarant’anni e l’ho
spesso frequentata con mia moglie Lidia, mondaviese doc. Rivisitata oggi con
attenzione diversa e con specifico interesse la chiesa s’è rivelata
contenitore ricco di storia, di opere, di oggetti interessanti e rari.
Varcato l’ingresso l’occhio
punta alla secentesca tela che sta al centro dell’abside, dietro l’altar
maggiore. Forse qui collocata a ricordarci l’Assunta, dedicataria della
chiesa, è in realtà l’immagine dell’Immacolata. L’ignoto pittore si
sente impegnato a rincorrere i modelli di Federico Barocci (Urbino, 1535 –
1612), dall’Immacolata della Galleria di Urbino al S. Giovanni
della Madonna di S. Giovanni pure nella Galleria urbinate, e si sente
impegnato a rincorrere la profonda religiosità che da quei modelli trasuda,
pur nella riproposta speculare degli originali barocceschi.
Nella cappella che funge da
braccio sinistro del transetto è possibile vedere un noto dipinto del
fanese Sebastiano Ceccarini (Fano, 1703 – 1783). Sul fondo paesistico fa
orgogliosa mostra di sé una bella veduta di Mondavio, ma ad incuriosire è
la presenza di un santo, Eleuterio, non certo frequente nelle nostre chiese,
del quale sarebbe interessante conoscere il filamento storico-devozionale
che lo conduce a Mondavio. Sant’ Eleuterio fu infatti uno dei primi papi,
originario della Grecia e morto nel 189, legato soprattutto – così almeno
si credeva per l’addietro – alla conversione dell’Inghilterra. Egli è
dunque, almeno apparentemente, del tutto estraneo alle vicende locali
marchigiane ed al culto di questa terra.
Nella cappella opposta è
custodito il classicissimo Angelo custode di Giuseppe Bottani
(Cremona, 1717 – 1784), dipinto che Mondavio deve alla munificenza del
vescovo Sante Lanucci Tarducci, figlio di questa terra, il quale, rientrato
da Civita Castellana dove aveva svolto il suo ministero episcopale, si
avvalse delle conoscenze sicuramente intrecciate con l’ambiente artistico
romano per arricchire d’opere la sua bella chiesa mondaviese. E Giuseppe
Bottani, che a Roma studiò sotto la guida del Masucci, acquistando fama di
buon paesaggista vicino ai modi del Puossin e di buon figurista di
ascendenze marattesche, rientra certamente fra queste conoscenze. Il dipinto
si fa garante ad abundantiam sia del buon paesaggista che del buon figurista,
ma è anche testimonianza iconografica di un messaggio di fede sicuramente
voluto e dettato dal vescovo Lanucci Tarducci: l’umanità (il bambino), la
cui esistenza trascorre fra pericoli di ogni genere, insidie demoniache,
peccato ( le rocce e il drago) e la paura della morte (il ramarro), deve
affidarsi (lasciarsi prendere per mano) alla bontà e alla grazia celeste (l’angelo)
se vuol raggiungere la luce della certezza e della felicità eterna (Cristo
e la Vergine). Nell’angolo in basso a sinistra, accanto allo stemma, si
legge: SANCTES LANUCCI TARDUCCI I.V.P. (iure utroque peritus) FIERI CURAVIT
– IOSEPH BOTTANI PINGEBAT ROMAE 1746: Sante Lanucci Tarducci, in ambo i
diritti perito (laureato cioè sia nel diritto canonico che in quello
civile), ha fatto fare (il dipinto). – Giuseppe Bottani lo ha dipinto a
Roma nel 1746. Sarebbe certamente stimolante scandagliare vicende e fatti di
questo vescovo, che il piccolo monumento nella cappella dice morto nel 1747
all’età di ottant’anni, per capire quanto nella chiesa possa in qualche
modo essere legato alla sua munificenza. E’ da credere infatti che a lui
la chiesa mondaviese debba anche il meraviglioso Velo della Veronica,
e cioè il piccolo dipinto che si vede entro l’ovale della parete destra
della stessa cappella e per il quale è stato voluto (dallo stesso vescovo?)
quel balletto d’angeli con in mano i simboli della Passione. Il quadretto,
forse un acquisto del vescovo sul mercato romano, o forse un dono a lui
fatto, è un ben tirato olio del primo Seicento, di non facile attribuzione.
Personalmente credo che il dipinto sia opera di un pittore nordico, forse
tedesco, che, giunto in Italia ricco di conoscenze dureriane, subisca il
fascino della luce caravaggesca; e credo anche che la tela, proprio per il
fatto di raffigurare in piccolo formato la ben nota reliquia esistente in S.
Pietro, sia uno di quei dipinti che trovavano facile commercio fra i
pellegrini desiderosi di possedere un souvenir del pellegrinaggio compiuto,
e consentivano ai pittori che a questi generi si dedicavano di sbarcare il
lunario con relativa facilità.
Altre opere nella chiesa
meritano attenzione. Sono i due grandi ovali collocati nel presbiterio ai
lati della tela baroccesca, e i cinque piccoli dipinti delle prime cappelle
a sinistra e a destra. Si tratta di opere del secolo XVIII, tutte
riconducibili alla fervida attività dei pergolesi Giovan Francesco Ferri
(Pergola, 1701 – Urbania, 1775) e Pietro Antonio Ugolini (Pergola, 1710 -
?, dopo il 1777). Benché non sia sempre facile distinguere l’attività
dei due pittori coetanei e compaesani, vicinissimi per stile e cultura e
spesso fors’ anche cooperanti, tuttavia si può affermare con sufficiente
sicurezza che gli ovali del presbiterio, raffiguranti S. Pietro con S.
Paterniano a sinistra e S. Giovanni Nepumoceno a destra, sono
opere di Giovan Francesco Ferri, mentre all’attività di Pietro Antonio
Ugolini sono da riferire le cinque tele delle due prime cappelle,
raffiguranti la Vergine del soccorso con S.Luigi Gonzaga e S.Nicola da
Tolentino, il Sacro Cuore di Gesù con i SS. Giuseppe e Giovanni Eudes, la
Vergine del Rosario con i SS. Domenico e Vincenzo Ferrer a sinistra e, a
destra, la Vergine col Bambino e S. Andrea Avellino e la Vergine
della cintura con i SS. Monica e Agostino. L’attribuzione delle sette
opere, che qui si avanza per la prima volta a quanto mi risulta, poggia sul
raffronto stilistico con opere certe dei due pittori pergolesi. Gli ovali
del presbiterio trovano infatti sicuri riscontri nei Quattro santi
dipinti dal Ferri per la chiesa di S. Pietro a Sassoferrato, o nella Madonna
del Rosario della chiesa di Barbara (AN), o ancora nell’Assunta
dell’oratorio Guazzugli-Bonaiuti di Pergola, oggi proprietà privata
fanese. Tali opere, tutte databili intorno agli anni 1735-45, sono anche una
precisa indicazione cronologica per le due tele mondaviesi, le quali ben s’attagliano
alla personalità del Ferri, per la pacata serenità dei personaggi e la
soffusa luminosità cromatica. Alla sensibilità più irruenta e drammatica,
al fare più scultoreo dell’Ugolini vanno invece ricondotti i tre dipinti
della prima cappella di sinistra, voluti dalla famiglia Antonini, come
dichiara lo stemma nella lunetta centrale dietro S. Vincenzo Ferrer, e i due
della prima cappella di destra, nei quali parrebbe di cogliere un più
maturo momento dell’attività del pittore, specie in direzione
scenografica, come dimostra lo stupendo taglio di luce che all’improvviso
investe S. Andrea Avellino nel momento della sua morte. Termini di raffronto
quanto mai rassicuranti per l’assegnazione all’Ugolini possono
individuarsi nella Madonna col Bambino, S. Crispino e Santo martire
dell’episcopio di Pergola, nella Sacra famiglia della chiesa di
Pantana pure a Pergola, nei Santi Andrea, Gregorio Magno e Benedetto
del monastero di Fonte Avellana, nella Via crucis firmata di S.
Giorgio di Pesaro.
Altra notevole presenza è
quella dello scultore Adamo Tadolini (Bologna, 1788 – Roma, 1868), autore
del busto di Paciffico Giorgi, sistemato sulla destra della cappella
del S.mo Sacramento e condotto secondo gli aulici canoni del momento. Anche
quest’opera, come l’Angelo custode del Bottani, riconduce all’ambiente
culturale romano. Pacifico Giorgi fu infatti cameriere d’onore dei
pontefici Pio VII e Leone XII ed è certamente nella capitale che conosce il
canoviano Tadolini il quale fu, a Roma, professore all’Accademia di S.Luca
e del quale si ricorda, nella basilica di S.Pietro, la gigantesca statua di S.
Paolo.
Non si possono non ricordare
altre opere di ottima fattura quali il bellissimo fonte battesimale
cinquecentesco, la figura in stucco della Vergine adorante il Bambino,
databile alla seconda metà del Cinquecento e riconducibile verosimilmente
all’entourage dell’urbinate Federico Brandani (Urbino, 1520 ca –
1571), o gli ammirevoli lavori in legno quali il pulpito datato 1746, il
coro e le porte, opere realizzate tutte in pregiato noce e attestanti la
professionalità straordinaria di tante maestranze locali.
Graditissime infine anche le
sorprese riservateci dalla sacrestia e dalla soffitta. Non voglio
addentrarmi nella noiosa enumerazione e descrizione dei molti calici,
messali, pissidi, paramenti vari ecc. che pur testimoniano la ricchezza
della chiesa da secoli, ma voglio accennare a due opere soltanto, aventi
però, ciascuna nel rispettivo settore, interesse e valore decisamente
singolari. La prima è una borsa in cuoio per la raccolta delle offerte
durante la messa. Si tratta di un manufatto trecentesco che l’uso,
protrattosi fino ad oggi, ha quasi del tutto privato della bella croce a
tabelloni dipintavi sopra a tempera. E’ un oggetto molto raro, da
custodire gelosamente in qualche teca. E’ l’unico del suo genere da me
incontrato in trent’anni e più di attività inventariale svolta nelle
province di Pesaro e Ancona. L’altra opera, custodita in soffitta, è una
buona copia della Beata Michelina che Federico Barocci dipinse per la
chiesa di S. Francesco di Pesaro e che oggi si conserva a Roma, nella
Pinacoteca vaticana. La copia mondaviese è sicuramente una delle tante
eseguite intorno al 1736-37, anni in cui fu dibattuta a Roma la causa di
beatificazione della religiosa francescana e in cui vivissima si ridestò
nelle nostre terre e in Romagna la devozione per Michelina Metelli (Pesaro,
1300 – 1356), la nobildonna pesarese che, sposa giovanissima in casa
Malatesta, appena ventenne, perduti marito e figlio, s’era fatta terziaria
francescana, era andata in pellegrinaggio in Terrasanta e sul Calvario aveva
sperimentato mistici rapimenti.
Il mio piccolo contributo
alla conoscenza della importante collegiata mondaviese finisce qui. Un
apporto, il mio - solo ora me ne avvedo –, che si è aperto e chiuso nel
segno di Federico Barocci, pittore che si colloca tra i grandissimi, il più
straordinario interprete, fra Cinque e Seicento, di un’arte autenticamente
religiosa, se si vuole anche visionaria, ma certamente nutrita di intime
certezze e di luminose e illuminanti verità, al di sopra degli orpelli di
una dottrina troppo spesso causa di lacerazioni insanabili. Un artista, il
Barocci, che in tempi davvero non sospetti si fa portatore di una ortodossia
tanto autentica e universale, un’ortodossia di cui soltanto oggi, e non
senza fatica e sofferenza, la Chiesa torna a farsi promotrice. Un pittore,
il Barocci, che, com’ebbe a dire qualche anno fa l’ex ministro del beni
culturali Antonio Paolucci, “aveva capito tutto” e il cui messaggio, che
è poi il messaggio della vera arte in ogni stagione, è oggi più che mai
attuale. Di tale messaggio sono ambasciatrici le numerose e belle opere d’arte
che la parrocchiale di Mondavio da secoli custodisce e propone all’ammirazione
di quanti vogliano farne tesoro.
Guido Ugolini